Io suono sempre il campanello

23 Maggio 2020



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Testimonianza di Francesca Oss, educatrice della cooperativa sociale CS4

Dopo 13 anni come educatrice di minori, ho deciso di cambiare ambito e di occuparmi di persone con disabilità e fragilità psichica. Da un lato volevo mettermi di nuovo in gioco, dall’altro pensavo non fosse un vero e proprio salto nel buio; ero convinta, infatti, che le finalità di un educatore siano le stesse indipendentemente dalle persone di cui si occupa e cioè sostenere l’autonomia, l’autostima, la responsabilità, l’inclusione.

La nuova esperienza è stata umanamente molto bella: ho costruito relazioni significative e profonde sia con i colleghi, sia con gli ospiti, che coltivo anche ora che non lavoro più lì. Professionalmente però non è stato facile: mi sembrava di aver fatto un salto indietro nel tempo e di essere finita in una comunità, certo molto solidale, ma isolata dal resto del mondo. C’era una grande attenzione alla cura e all’assistenza degli ospiti, ma la loro autonomia, che pensavo si dovesse sostenere, era invece ridotta al minimo. Alcuni ospiti, molto pochi, rientravano a casa nel fine settimana, la maggior parte rimaneva lì 24 ore su 24, 7 giorni su 7. La vita aveva ritmi precisi, uguali per tutti: sveglia, pranzo, cena, laboratori, igiene personale, sonno. Tutto scandito, ora per ora. Un anno dopo ho fatto un altro salto nel tempo: sono andata a lavorare nell’appartamento domotico della CS4, che è un po’ l’embrione dei progetti sull’abitare inclusivo per persone con disabilità avviati dalla cooperativa con il sostegno di etika. Appena arrivata sono rimasta senza parole: in quella casa vivevano e vivono Edoardo, Mirta e Carla, tre persone con disabilità cognitive e fisiche diverse, ma simili a quelle ospitate nell’istituto, e ci vivono in autonomia: fanno la spesa, cucinano, e ancor prima decidono cosa mangiare! La mattina escono per andare a lavorare in un centro occupazionale o a fare attività laboratoriali educative in centri della cooperativa e alle 16 tornano a casa. Ognuno gestisce le proprie cose – ad esempio la camera da letto – e poi hanno compiti che condividono come cucinare, pulire, stirare. L’appartamento è dotato di una serie di ausili tecnologici che facilitano la gestione della casa. Hanno rapporti amichevoli con i vicini e una vita anche fuori casa e fuori dai centri della cooperativa: vanno a mangiare la pizza con gli amici o a teatro, fanno volontariato.

Noi educatori siamo lì un paio di ore al giorno (un po’ di più nei fine settimana), poi se hanno bisogno posso chiamarci a qualunque ora, e abbiamo principalmente un compito di osservazione e di sostegno, quando serve.

L’autonomia che hanno raggiunto e che all’inizio mi sbalordiva è frutto di un lungo lavoro di training fatto dagli educatori che li hanno seguiti prima di me e che, ad esempio, hanno insegnato loro a alcune ricette base attraverso l’uso di immagini; ricette che ripetute più volte sono diventate procedure acquisite e naturali. L’approccio alla cucina è stato adottato per tutte le altre abilità e competenze necessarie a vivere in autonomia: ogni compito, cioè, è stato suddiviso in tante piccole azioni rappresentate attraverso il linguaggio delle immagini in modo da facilitarne la comprensione, poi la ripetizione aiuta la memorizzazione e la trasformazione in automatismi. Ma non è solo una questione di abilità, ma anche di relazioni: Edoardo, Mirta e Carla sono diventati una famiglia e così si definiscono.

Per loro quell’appartamento, formalmente della cooperativa, non è un servizio che frequentano, è la loro casa, sul campanello c’è il loro nome e io suono sempre quando arrivo e aspetto che mi aprano. Sono io l’ospite, non loro.